PER UN’ANALISI MARXISTA DELLA CRISI

Dal 2008 ci sentiamo ripetutamente dire, dai media allineati e dai soliti pennivendoli, che le cause della crisi economica vanno ritrovate nella finanza e non nell’economia reale, ovvero nella produzione. Queste tesi, ormai diffuse anche tra alcune sigle sindacal-politiche e di movimento, sono funzionali al sistema perchè mirano all’ “abbellimento” dello stesso e non al passaggio ad una società dove non esistano più sfruttati (ovvero chi la crisi la sta pagando) e sfruttatori.

In risposta a chi crea confusione circa le reali cause della crisi e le soluzioni da attuare sostenendo tesi demagogiche e fuorvianti per il proletariato, pubblichiamo un’interessante analisi di Dino Erba.

Crash e sole d’agosto 

A proposito dell’iniziativa

«Non pagare il debito»

Sarà forse il sole d’agosto su menti turbate dal crash … ma di questi tempi, di idiozie se ne sentono tante. Ultima in ordine di tempo, la proposta diffusa da «Il Fatto Quotidiano», il 13 agosto 2011, con il titolo: Quelli che «io il debito non lo pago» (riportata in calce). Promotori dell’iniziativa «Non pagare il debito», sono i soliti noti: organizzazioni e figure sindacal-politiche sempre pronte a qualunque acrobazia, pur di evitare che i proletari prendano in mano il loro destino, per i propri interessi. In questo caso, la demagogia politica sconfina con l’irresponsabilità.

Un po’ di demagogia e molta ignoranza (politica)

Nella storia più o meno recente, c’è un unico esempio di Stato che non abbia pagato il debito ad altri Stati: è la Russia, dopo la rivoluzione d’Ottobre. Il governo Sovietico non riconobbe i debiti contratti dal governo zarista con Francia, Inghilterra, Stati Uniti e con altri Paesi. I sovietici poterono farlo, perchè alle spalle avevano una rivoluzione, fatta dagli operai, dai contadini e dai soldati, che si opposero, armi alla mano, all’aggressione dei Paesi capitalistici.

D’altro canto, lo stesso aveva fatto la Francia rivoluzionaria, nel 1792, dichiarando: «la sovranità dei popoli non è legata dai trattati di tiranni», e ripudiò i propri debiti nazionali… Ma la rivoluzione era in marcia.

Ben diversa è la situazione di quei Paesi che, nell’impossibilità di pagare i loro debiti, fecero default, trovandosi poi in casa le cannoniere delle Potenze: Inghilterra, Francia, Usa.

Il primo fu il Messico, nel 1861 che, avendo sospeso il pagamento degli interessi sul debito, fu occupato dalla Francia.

Seguì l’Egitto che, nel 1878, non potendo far fronte al debito, passò sotto l’amministrazione inglese (e in parte francese), fino al 1936.

Venne poi il Venezuela che, nel 1902, fu sottoposto al blocco navale da parte delle flotte europee.

Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, l’Impero Ottomano e l’impero Cinese furono costretti a pesanti concessioni a favore dei creditori europei, o meglio strozzini. E quando ci furono proteste, come la rivolta dei Boxer del 1899 in Cina, una spedizione internazionale la represse nel sangue.

Questi soprusi finirono per alimentare le rivoluzioni nazionali, che consentirono a molti Paesi di ridefinire i rapporti con le potenze imperialiste; e,pur non eliminando la loro sostanziale dipendenza, grazie a queste rivoluzioni, poterono comunque strappare migliori condizioni, sul piano commerciale e finanziario.

Ma quei tempi sono tramontati.

Dopo la Prima guerra mondiale, la Germania sconfitta subì le pesantissime «riparazioni», imposte dai vincitori; e quando, all’inizio del 1923, ritardò a pagare una rata, la Francia occupò militarmente il bacino carbonifero della Ruhr. La Germania fu dissanguata e, quando si riprese, partorì l’uovo avvelenato del nazismo. Al modello nazional-socialista potrebbero ispirarsi, oggi, coloro che propongono di non pagare il debito. Ma avrebbe le gambe molto corte. In un sistema economico globalizzato, come l’attuale, prevalgono relazioni economiche internazionali, che non lasciano molto spazio ai sogni autarchici, su cui si fondano i modelli nazional-socialisti.

Non reggerebbe neppure il piccolo Ecuador, di Rafael Correa, cui costoro traggono ispirazione. Dimenticando di precisare che, in realtà, nel 2009 l’Ecuador ha rinegoziato il debito con i suoi creditori, dimenticando anche di dire che la moneta ufficiale dell’Ecuador è il dollaro degli Stati Uniti, ai quali il Paese Sud-americano è legato anche sul piano commerciale: 34% dell’export e 25% dell’import.

Effetti ben più devastanti ebbe il default argentino del 2 gennaio 2002, sulle obbligazioni internazionali. Il risultato fu un deprezzamento del peso, il cui valore si ridusse a un terzo, seguito da un’inflazione galoppante. In poche parole, fu una colossale rapina ai danni delle masse popolari, le cui condizioni di vita subirono un violento tracollo. Per inciso, il default era stato preceduto (dicembre 2001) da misure che bloccavano l’accesso ai conti correnti (ilcorralito), ma ormai la fuga dei capitali all’estero era già avvenuta. Il danno e la beffa. Ma seguirono anni di lotte, i piqueteros, solo in parte riassorbite.

Il difetto sta nel manico!

Il caso dell’Argentina e altri meno disastrosi (come l’Uruguay, sempre nel 2002) dimostrano che oggi, facendo default, non si rischia l’arrivo delle cannoniere, ma molto peggio, si rischia la paralisi economica. Resta da vedere un’ultima ipotesi: e se fossero gli Stati Uniti scegliere il default? Il crollo dell’imperialismo numero uno scatenerebbe gli appetiti di tutti gli altri, che mordevano il freno, l’Unione Europea in primis. Con tutta la mala fungaia degli anti-imperialisti a senso unico, quelli rigorosamente anti Usa, ma pronti a sostenere i vari rais-caudillios.

Situazione da fuggire come la peste.

Vediamo infatti che, alla base della teoria del default, c’è il medesimo nazionalismo, con cui oggi le classi dominanti spacciano la politica dei sacrifici (prego, della «solidarietà»!), dicendo che siamo tutti nella stessa barca: padroni e operai, affaristi e lavoratori a reddito fisso, faccendieri e disoccupati. Anzi, è ancora più fetente, perché in caso di default, i proletari verrebbero affasciati in un blocco nazionale militarizzato, da opporre al «nemico esterno». Quale nemico? La finanza internazionale, la «bancocrazia» (tra poco evocheranno gli spettri giudaico-massonici). Ed è qui il marcio della proposta di non pagare il debito. Questa proposta è costruita sull’ipotesi che crisi e debito nascano da problemi finanziari, confondendo gli effetti con la causa. La crisi nasce nel processo di accumulazione del capitale, nasce nella fabbrica; nasce dal rapporto salario e profitto, nasce dal rapporto operaio e padrone. Il processo di accumulazione è entrato in crisi nel momento in cui l’estorsione di plusvalore, per quanto esasperata, non riesce a produrre un quota di profitti, in grado di alimentare e allargare il processo di accumulazione. I capitali, a questo punto, si sono rivolti alla finanza, inseguendo le vie della speculazione più sfrenata (o «creativa»), creando gli sconquassi di questi anni. Al tempo stesso, il processo produttivo reale – quello che crea merci, sotto forma di beni e servizi –, da cui ricavare il plusvalore, diventa sempre più asfittico, per il venir meno di investimenti che possano rilanciare la produzione; di pari passo, la condizione operaia peggiora, facendo riemergere vecchie forme di sfruttamento, mai tramontate: prolungamento della giornata lavorativa, riduzione del salario reale, erosione del welfare (salario differito). Tendenzialmente, il plusvalore viene esorto da una quota sempre più ridotta di operai, che devono mantenere l’intera società. Il peggio è che buona parte del plusvalore estorto, non rientra, come abbiamo visto, nel processo produttivo, ma finisce nel calderone della finanza. Dove si brucia. Altrettanto avviene con le stangate. I 47 miliardi scuciti con la manovra finanziaria correttiva del 16 luglio, si sono bruciati in due settimane! E lo stesso avverrà con i quattrini (circa 80 miliardi) raccattati dall’ultima rapina, quella di ferragosto (solo nella giornata del 18 agosto le borse UE hanno bruciato 300 miliardi di euro).
Mentre la crisi si avvita in una spirale accelerata di «crolli», la recessione incipiente rende evidente la subordinazione della finanza all’economia reale: non appena produzione e occupazione scendono, la borsa crolla.
E anche sul piano sociale, lo scenario diventa sempre più chiaro: la divaricazione tra gli interessi dei proletari e quelli dei borghesi aumenta, e si avvia verso una crescente conflittualità. Di cui l’Inghilterra ci ha dato un primo assaggio. E non saranno certo le stupidaggini dei social-nazionalisti impuniti a esorcizzare la lotta di classe. Possono solo creare un po’ di confusione.

Dino Erba Milano 19 agosto 2011

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