Periodicamente nei territori dove facciamo politica e ormai in egual misura su tutto il territorio nazionale ci troviamo ad affrontare la questione spinosa dell’apertura di sedi fasciste da fermare. Oppure a seguito di iniziative pubbliche più o meno pubbliche organizzate da neofascisti si cerca di mettere in piedi comitati eterogenei di antifascisti militanti.
Come sempre le teorie che cercano di diffondere i fascisti sono quelle populiste o xenofobe. Quindi i nemici da combattere sono gli immigrati perchè ci tolgono il lavoro e le banche perchè tengono al loro giogo la società intera (non che le banche non ci siano nemiche ma in quanto strumento: la pistola non l’assassino).
Come soluzione individuano la compattezza della patria davanti ai nemici che arrivano da fuori a rovinare una società italica pura possibile e paradisiaca.
Il nemico è prima di tutto interno, noi lo sappiamo, e loro sono i suoi servi.
Alle assemblee antifasciste spesso aderiscono realtà politiche e sindacali di opposti schieramenti seppure racchiuse nell’area della sinistra di ogni tipo, quindi militanti di sindacati e partiti istituzionali e burocratizzati si trovano a discutere come affrontare l’annoso problema insieme a compagni di aree antagoniste.
Oltre al fatto che trovarsi ad inseguire le iniziative antifasciste è già di per se limitante e inutile se rimangono iniziative sporadiche, il problema maggiore rimane l’impossibilità di analizzare il fascismo o anche solo razzismo e xenofobia come fenomeni legati a doppio filo con il dominio politico ed economico di una classe su di un altra. Per chi non vede nel superamento di questo sistema il fine del proprio lavoro politico è sempre più semplice e utile seguire le chimere della democrazia da salvare e di una Costituzione nata monca e comunque mai applicata nelle sue parti più progressiste. Ma non è con un compromesso che ci si può liberare delle catene. Queste catene a seconda dei periodi storici e delle circostanze possono essere più larghe o più strette ma non possono mai cessare di esistere fino a che lo sfruttamento del lavoro garantirà a pochi di mantenere alti i propri profitti.
Il fascismo fu ed è un fenomeno di classe, ovvero dell’oppressione di padroni e poteri forti sul proletariato e più i generale sulle classi subalterne. A riprova di ciò sappiamo con certezza storica che la grande borghesia industriale e agraria andava a braccetto con i gerarchi fascisti, almeno finchè questi erano perfetti garanti dei loro profitti. Tutto ciò ovviamente a discapito dei lavoratori che se non dovevano partire per combattere su qualche fronte imperialista erano costretti a regimi da carcere nei luoghi di lavoro. Repressione, violenze, leggi razziali e restrizione della libertà non nacquero per caso ma per scopi politico-economici, analizzarli retoricamente secondo schemi vecchi e inadeguati già allora è oggi solo dannoso.
Inoltre per questo motivo intendere la resistenza come fenomeno conclusosi il 25 aprile 1945 è quantomeno limitativo. Inanzitutto perchè a fare la resistenza non furono solo le brigate partigiane nelle montagne e nelle città, ma furono soprattutto i proletari ad abbattere il regime a suon di scioperi, in più anche perchè le stesse forze alleate che entravano in Italia da Sud non erano certo amiche del popolo che bombardavano continuamente nei quartieri popolari. Avanzando gli anglo-americani ragionavano già chiaramente sul dopoguerra e su come dirigerlo verso canali comodi ai loro interessi. L’Italia era un boccone troppo ghiotto data la posizione strategica nell’ambito dello scontro imperialistico tra i due blocchi che si andava delineando. D’altrocanto l’URSS non si comportò certo diversamente e le prime frasi che Togliatti pronunciò quando sbarcò a Salerno ce lo dimostrano ancora, “Noi non faremo come la Russia” (da intendersi come la rivoluzione d’ottobre). Tutto ciò che seguì andò in quel senso, a cominciare dall’amnistia firmata con De Gasperi nel 1946. La retorica di una resistenza svuotata di ogni carattere “sovversivo” nacque proprio in seno a quel partito bisognoso di presentarsi internazionalmente come partito con ambizioni di governo e di iniziare la fase della transizione pacifica e parlamentare verso il socialismo: fumo negli occhi dei proletari. Nel 1948, dopo l’attentato a Togliatti furono fermate dal PCI le occupazioni di centri nevralgici in alcune città, in particolare la prefettura e la RAI a Milano.
Ancora adesso paghiamo le conseguenze di queste posizioni diffuse in parte anche negli ambienti extraparlamentari.
Sappiamo benissimo che non è facile considerare la questione nella sua interezza, ma fermare il fascismo oggi non può non passare attraverso la costruzione di un immaginario culturale e sociale diverso, oltre che politico. E’ infatti ormai chiaro come negli ultimi anni si sia verificata una perdita di identità della classe lavoratrice ormai incapace di assumere posizioni politiche o sindacali indipendenti da interessi diversi ai propri, solo da alcuni settori si notano segnali di risveglio, in particolare gli immigrati che si ribellano al regime da fame e galera al quale sono costretti nelle cooperative dove lavorano (principalmente logistica ma anche agricoltura e industria).
Il nostro intervento deve quindi saper coinvolgere il maggior numero di cittadini in generale , ma soprattutto lavoratori di ogni etnia e giovani studenti, per essere incisivo. Al piano culturale e di controinformazione si deve inevitabilmente accompagnare un’analisi che inquadri il nazifascismo di ieri e di oggi come fenomeno interno a questo sistema e quindi superabile solo in una società priva dello sfruttamento di classe.
Organizzare i lavoratori lavorando per portarli su posizioni politiche vicine ai loro interessi reali è un passaggio necessario. Ad esempio, qui nel nord Italia sono in corso da qualche anno lotte di immigrati dipendenti di cooperative che operano in maniera sommersa e al di fuori di ogni legge. Supportare oggi questi lavoratori portando prospettive di ricomposizione di classe significa fare il danno maggiore al fascismo, oggi come ieri.